Sulla terra sottile della piccola valle antica

Ai piedi del Mottolo, il piccolo rilievo che sotto i prati nasconde una roccia basaltica bruna – sgorgata durante preistoriche eruzioni sottomarine – una lingua di terra si allunga e ondeggia prima di scendere rapida in pianura, affondando nel solco scavato da antichi torrenti.
Su questa piccola valle la terra è sottile; dissodata centinaia di anni fa e difesa dai più recenti tentativi di invasione del bosco, è un fazzoletto di terra su cui seminare un po’ di mais, fare un po’ d’orto, piantare qualche albero da frutto.
Un piccolo vigneto sopravvive e ripete la sua vecchia filastrocca; un ciuffo di ulivi ondeggia al vento su un’insenatura d’erba; le chiome di piccoli ciliegi sono scoppi bianchissimi.

Più in là, sotto una selva di giovani carpini, più alti di dieci metri, che comincia ad inverdire di gemme, s’intravede un muro a secco, una masiera che curva e si perde nel bosco.
Gli ottant’enni di questi luoghi ricordano quando un tempo al posto dei boschi c’erano pascoli e vi portavano le capre; prima che si cominciasse a seguire il richiamo irresistibile della pianura e delle sue fabbriche. E mentre il frastuono della modernità rapiva con i suoi nuovi entusiasmi, un silenzioso esercito di carpini e roverelle in qualche decina d’anni hanno riconquistato queste colline.

Alberelli di pesco sono nuvole rosa sul fondo bruno della terra appena smossa: una donna anziana vi semina con ampi gesti del braccio e di tanto in tanto si china a cogliere un sasso per gettarlo su un mucchio ai margini dell’orto.
Su una cresta erbosa ci sono tre file di casette d’api.

Nel cielo senza nuvole, una poiana vola tracciando larghi cerchi. Non la vedo ma ne sento il richiamo acuto e intenso, che fa eco tra le pareti in ombra della valle.

Guardo. Riguardo. Ripasso con gli occhi di continuo. È una sintesi dei Colli Berici.
Il tempo si dilata, si allarga.
È un anfratto per tirare il fiato.

Gianluca Sgreva

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